Lettera sull’«umanismo»
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Con questa lettera, scritta nel 1946 in risposta a Jean Beaufret che gli chiedeva come fosse possibile «ridare un senso alla parola “umanismo”», Heidegger sembra aver voluto rispondere, una volta per tutte, alle legioni pensose che nei decenni successivi si sarebbero poste l’interrogativo: dove sono, quali sono i valori? E perché – qualunque cosa essi siano – tendono a subire una immancabile «crisi»? Per porsi tali quesiti, occorre intanto ignorare che l’uso stesso della parola «valore» per designare ciò che in Platone poteva essere il bello e il buono è il segnale non di una crisi, ma di uno sprofondamento che ha tolto al pensiero ogni appoggio sicuro. E Heidegger è stato colui che ha descritto con la massima precisione l’origine e il manifestarsi di tale sprofondamento. Con questa lettera, che divenne presto – e a ragione – uno dei suoi testi più conosciuti, egli ha voluto orientare il pensiero non già verso l’altisonante e vacuo «umanismo», ma verso quel complesso tessuto di pensieri, procedure, atti che costituisce la tecnica e domina il nostro mondo – e di quell’«umanismo» vanifica ogni nozione, producendone al tempo stesso i nostalgici.