La commedia dell'arte
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Description de l’éditeur
Come si può pensare alla Commedia dell'Arte senza sentire un fremito? Una paura, un desiderio. Chiunque ha recitato lo sente. Sento la voce di quegli attori come la voce degli avi, benevoli e sorridenti, ma anche minacciosi, a volte, perché morti. Ebbene, è proprio così, sono tutti morti, ora. Eppure c'è stata vita più vita di quelle? Perché quelle erano vite "doppie" o anche triple e quadruple. Vite vissute più volte, dentro e fuori, osservando e facendosi osservare. Osservando e osservandosi. Punti di vista, prospettive. La Commedia dell'Arte non è solo un fenomeno storico, è un fenomeno mitico. In quanto mito ha fondato, e fonda, un presente, più presenti. Nomi, ora solo nomi. Nomi che, come in Proust, come in Nabokov, riempiono di neve la carta velina del cuore. Isabella Andreini, Francesco "Capitan Spavento" Andreini, Tiberio "Scaramuccia" Fiorilli, Flaminio Scala in arte Flavio, Tristano Martinelli "Arlecchino", Vittoria Piissimi, Dominique Biancolelli… sulle carrozze attraverso le Alpi, a dorso di mulo, nelle "stanze" con le grandi tinozze coperte da lenzuola, pronte per il bagno dopo lo spettacolo, intorno alla tavola, dopo la cena, a contare e dividere l'incasso, nei letti sempre diversi… Imitatori di re e di poveracci, poveracci essi stessi, quasi sempre, ma liberi, come Julian Beck, allegri e disperati come sono sempre gli attori. I comici dell'Arte italiani di quegli anni hanno inventato e dato dignità a una dimensione antropologica dell'essere umano. L'attore non è solo un mestiere, è un modo di essere in cui ogni essere umano può riconoscersi. È la consapevolezza, nei fatti e nelle azioni, che ciò che appare esiste e che tutto ciò che esiste, esiste perché appare. E che il mondo è il teatro della nostra coscienza. Perché noi ce lo rappresentiamo. E che ridere del mondo e di sé è la cosa più saggia. E che il riso è pieno di pietà per gli uomini. Perché tutti, attori compresi, dobbiamo morire.