Bibbia traduzione letterale: Daniele
La Bibbia come non la avete mai letta
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Caso quasi unico nella letteratura mondiale, la Bibbia non è mai riuscita a separare la fase della traduzione da quella dell’interpretazione. Probabilmente per l’ambiguità e per la mutabilità del contenuto, da sempre i traduttori hanno provveduto a inserire la loro interpretazione del testo spacciandola per autentica, non disturbandosi di riportare le proprie scelte interpretative, ma piuttosto aggiungendo note che allontanano ancora di più il significato dal testo originale: è caratteristica in ambito cristiano l’iniezione di contenuti del nuovo testamento o addirittura di speculazioni teologiche successive come lo spirito santo o le profezie. In questa opera, seguendo le indicazioni di Mauro Biglino, provvediamo invece a tradurre la Bibbia letteralmente. La regola generale per i termini non standard è che, ove una parola ebraica è presente in una singola istanza, oppure in parti diverse con significati diversi, o ancora nel caso che una qualsiasi traduzione potrebbe introdurre nel lettore un bias indesiderato, la decisione è quella di lasciare la parola in un originale fonetico in forma analoga alla versione di BibleHub, per uniformità. Questo è il caso ad esempio di: ‘ĕ·lō·hîm, Yah·weh, Šad·day, ‘El·yō·wn, Rū·aḥ, Kā·ḇō·wḏ, Mal·’aḵ.
Le persone di nomi, aggettivi e verbi seguono scrupolosamente l’originale ebraico, anche riguardo termini controversi come ‘ĕ·lō·hîm, Šad·day, ’Êl, senza risolvere arbitrariamente le contraddizioni. Il genere degli articoli e aggettivi resi in ebraico viene associato al genere del termine ebraico, e non a quello di una delle traduzioni in italiano; questo può naturalmente portare a ulteriori discrepanze del testo rispetto le traduzioni clericali. Nel caso particolare di ‘ĕ·lō·hîm, quando preceduto da articolo determinativo, si è deciso di renderlo sempre come ‘gli ‘ĕ·lō·hîm’, anche quando il termine regge un verbo al singolare. La soluzione appare quasi altrettanto insoddisfacente quanto coniugare l’articolo col verbo, per usare l’aggettivo singolare solo con il verbo al singolare, es. ‘l’‘ĕ·lō·hîm’, e in tutti gli alti casi al plurale, es. gli ‘ĕ·lō·hîm’, ma riteniamo la forma uniforme decisa essere preferibile dal punto di vista della leggibilità e dell’obiettività.
Daniele risulta inoltre particolarmente ostico nella traduzione anche del testo ebraico nel suo dialetto Aramaico, introducendo esso un numero imponente di nuovi termini. In molti casi essi sono stati evidenziati come nuove chiavi, ma l’assenza di riferimenti incrociati ha obbligato in alcuni casi a seguire le traduzioni prevalenti, cercando di non usare parole per le quali la versione ebraica è stata già evidenziata, per non dover sostituire tutte le parole. In ogni caso, l’assenza della possibilità di confrontare i termini con il resto della Bibbia, rende il testo di Daniele, nelle parti in lingua Aramaica, di significato particolarmente arbitrario rispetto il resto in qualsiasi traduzione.
Le parti del testo di provenienza dal testo ebraico enunciano un certo ‘ĕ·lā·hā al posto di ‘ĕ·lō·hê e in generale il termine Yah·weh risulta completamente assente per la parte con il vocabolario alterato, lasciandoci a domandare se il testo si riferisca allo stesso individuo. Dal capitolo otto, ritorna il vocabolario e la grammatica consuete, e nel capitolo nove torna anche il termine Yah·weh.
Ovviamente per le parti assenti dal testo ebraico poco si può dire e quindi ci limitiamo a sostituire le parole già evidenziate al modo dei testi dello stesso genere precedenti. Per uniformità si è deciso di usare, ove possibile e sensato, le forme specifiche di Daniele piuttosto che quelle generali; nel capitolo 3 si è deciso di lasciare la resa di Signore, come Yah·weh in luogo di renderlo con il locale mār, sperando così di aver meglio colto il pensiero del redattore.
L'episodio a Daniele 1: 15 deve aver ispirato la barzelletta dei test russi su persone di diversa provenienza nei loro campi fornendo loro solo verdura: tutti al termine del periodo escono emaciati a parte l'ebreo ben pasciuto che, interrogato, ha spiegato di aver "filtrato" la verdura attraverso polli!
Chissà se la stessa cosa è sottintesa qui.
A Daniele 2: 1 si presenta uno schema simile a quello di Giuseppe nella Genesi, con un sogno da interpretare dal re di Babilonia, mentre ovviamente Giuseppe si rivolgeva al faraone dei miṣ·rā·yim. Qui compare un’ulteriore complessità, visto che il re nemmeno rivela quello che ha sognato! Ciononostante Daniele si offre di rispondere per salvare gli altri saggi e dà la risposta esatta probabilmente facendo dimenticare al re il sogno originale e facendolo piuttosto appassionare alla nuova interpretazione; questo in quanto la correttezza è solo attestata dal re, non avendo egli a nessuno rivelato il sogno per fare un confronto. Il meccanismo è stato studiato in tempi moderni riguardo le Regressioni.
Del resto a Daniele 2: 5 si presenta la faccenda in maniera piuttosto bizzarra quasi il re desideri un esito specifico. Anche il re più crudele non potrà mai chiedere a qualcuno di indovinare cosa abbia sognato a pena della morte!
La combustione degli uomini di Babilonia Daniele 3: 22 , più che dall'intervento malevole di ‘ĕ·lāh, comunque lo si scriva, è con ogni probabilità dovuta all'incremento del calore del fuoco, che in qualche modo si è espanso in modo imprevisto. Da notare poco dopo, persino nella versione posticcia, che sembrano chiarire la faccenda ai paragrafi 46-49.
L'assunzione di capacità di Fachiri da parte dei compagni e l'elegia successiva a Daniele 3: 24-90 è naturalmente un'aggiunta posticcia cattolica, totalmente assente dal testo originale utilizzato da ebrei ed evangelici. Del resto il testo biblico fa molta attenzione ad astenersi dal riportare eventi pubblici fantastici. Riguardo la traduzione, ovviamente, non disponendo dell'originale, probabilmente mai scritto, facciamo quello che possiamo.
Da notare a Daniele 3: 91-92 come nel fuoco siano stati gettati solo i tre, senza Daniele, e come questi ricompaia alla fine: dobbiamo immaginare che lui o altri abbiano messo in atto qualche espediente per salvare i suoi compagni.
E a Daniele 3: 93 si vede come Daniele sia sparito di nuovo dopo aver messo in atto qualche espediente per salvare gli altri tre.
Il brano a Daniele 3: 98-100 inaugura il capitolo 4 della versione Ebraica ed Evangelica.
A Daniele 3: 92, pur al di fuori dell’elegiaca parte esterna al testo ebraico, si dà pur sempre conto di persone che stanno in una fornace senza bruciare! Scartando l’intervento del nuovo personaggio divino ‘ĕ·lāh, siamo lasciati a interrogarci cosa sia successo, in quanto in questo libro ci troviamo in uno spazio più storico che mitico. Se infatti nel caso del fuoco che nasceva dall’acqua di parecchi libri si può facilmente attribuire la causa a sodio o altra sostanza caustica, qui occorre immaginare qualche espediente che abbia protetto i quattro individui. In effetti anche vestendo abiti ignifughi all’interno di un locale con un fuoco, si muore comunque. Dobbiamo quindi ricordare che essi erano in una posizione di prestigio nella corte e potrebbero avere avuto numerosa collaborazione per creare preventivamente e passare attraverso un buco di questa fornace per raggiungere uno spazio protetto. D’altro canto non ci viene detto come è fatta questa fornace.
Interessante la difformità di relazione a Daniele 4: 4 rispetto i capitoli precedenti: qui molto ragionevolmente Nabucodònosor dichiara di aver raccontato il sogno e nessuno ha potuto fornirne l'interpretazione a parte Daniele, ciò al contrario di quanto raccontato nei capitoli precedenti quando si è detto che non abbia nemmeno raccontato il sogno sconcertando gli indovini! Scartando l'ipotesi di una resipiscenza del re Babilonese she si sia reso conto di aver chiesto l'impossibile e così si aggiusti le carte, dobbiamo pensare che siano state accostate versioni diverse: questa che segue la storia di Giuseppe della Genesi, e l'altra che esagera oltre modo. Il lettore può giudicare per suo conto quale possa essere la verità. Certo per chi crede che la Bibbia sia la parola di Dio, queste contraddizioni creano molti problemi e la necessità di scrivere infiniti libri per confondere i lettori e convincerli a non porsi domande.
Ancora più curiosa la difformità a Daniele 4: 5-6, qui si dice niente pò di meno che abbia chiamato Daniele intenzionalmente, dimenticandosi peraltro di aver cercato di bruciare i suoi compagni poco prima.
Evidentemente ci si prende gioco del re a Daniele 5: 5 facendo materializzare una mano dal nulla, non che non si siano visti simili trucchi nei libri precedenti; probabile la scrittura fosse fatta con succo di limone come in questa ricetta per bambini, che come noto, resta invisibile finché non lo si scaldi.
Evidentemente l'atto sciagurato, che ha sconvolto le potenze del cielo, commesso dal nuovo re segnalato da Daniele a Daniele 5: 22 non è qualche comportamento atroce nei confronti di altri esseri umani o altro atto proditorio, quanto il fatto di aver bevuto dalle stoviglie sottratte a Giuda. Il sistema ordito dai Giudei è quello di cercare di non far godere i beni acquisiti fino a farli credere senza valore e quindi a indurre restituirli, allo stesso modo di quanto facevano nell''800 inventandosi fantasmi che infestavano manieri, o si parva licet più recentemente facendo attentati per far abbandonare terreni.
Daniele 5: 23 si ritiene assai importante in quanto fa apparire nel testo biblico l'aspetto ecumenico. Il Dio d'Israele non è più un fatto privato del popolo eletto, ma tiene in mano la vita anche di tutti gli altri. Ovviamente non sappiamo quanto questa apertura fosse sincera o fosse intesa solo per convincere il re, per poi tornare a dire che sono tutti in mano di Dio, ma ci sono quelli preferiti.
Daniele 5 termina in modo piuttosto curioso a Daniele 5: 29-31 quando si chiariscono i termini della questione. Daniele accetta i doni del re, al contrario di quanto aveva detto e il re poco dopo viene ucciso. Appare evidente come trescare con i Giudei non porti molta fortuna, ma è assai probabile come Daniele fosse informato del colpo di stato e se ne sia avvantaggiato.
Si fa presente che Daniele 6 presenta una diversa organizzazione dei paragrafi tra il testo Cattolico e quello ebraico ed evangelico. In particolare il testo cattolico divide in due il paragrafo 4 a Daniele 6: 4-5 del testo evangelico e dopo di allora numera i paragrafi con un’unità in più.
A Daniele 6: 17 il piuttosto noto episodio del confronto di Daniele con i leoni, che è ben più scarno di quanto riporti la leggenda e l’arte. In particolare non si dice cosa abbiano fatto i leoni, né come sia fatto il covo, a parte che abbia una bocca che si può chiudere, e che sia verticale, visto che si dice che si possa raggiungere il fondo, ma ci si basa sulla sola parola di Daniele che sarebbe arrivato un mal·‘ăḵ a salvarlo. Quando sembra improbabile che in un giorno di riflessione il re favorevole a Daniele non abbia escogitato qualche stratagemma per liberarsi dei suoi nemici salvando Daniele, magari chiudendo i leoni in una gabbia secondaria prima di far scendere Daniele, concordando con lui il da farsi.
A Daniele 7: 1 è Daniele stesso ad avere una ḥez·wā, di cui cerca una interpretazione.
A Daniele 7: 18 vengono evocati questi qad·dî·šê di certi ‘el·yō·w·nîn, parola che il traduttore monoteista traduce, come prevedibile al singolare, ma che costituisce la prima volta nella Bibbia che ‘el·yō·wn compare al plurale, per quanto nell’anomalo plurale presente in Daniele.
A Daniele 7: 25 una curiosa occorrenza nella stessa frase del plurale di ‘el·yō·wn e del ‘il·lā·’āh i quali il traduttore monoteista traduce, senza batter ciglio, con la stessa parola altissimo singolare.
A Daniele 7: 28 un’interessante discrepanza tra il testo ebraico qui tradotto letteralmente e la traduzione teologica. Si capisce in realtà che se lo tenga per se stesso, evidentemente per paura di rivelarlo, mentre la traduzione canonica da la suggestione che lo voglia tenere nel suo cuore per valorizzarlo.
Da notare a Daniele 8: 1 una nuova occorrenza di sostantivo al plurale anche dotato di articolo determinativo e verbo al singolare, come spesso avviene con il sostantivo ‘ĕ·lō·hîm.
A Daniele 8: 3 ecco che ritroviamo la forma lip̄·nê (לִפְנֵ֥י), contrazione di pā·ne con pronome, in luogo del ‘locale’ qo·ḏām. Quest’assortimento di termini può dare indicazioni sulla collocazione temporale dei singoli capitoli e paragrafi. Poco dopo si noti il curioso termine qə·rā·nā·yim che rappresenta un plurale in ‘im’ e quindi regolare, pur facendo diventare la parola maschile; mentre nel resto della Bibbia qe·ren ha plurale qə·rā·nō·wṯ ed è quindi femminile.
L’anomalia persiste a Daniele 8: 5 dove, oltre al ritorno di pə·nê, vediamo anche tornare il consueto ‘ā·reṣ (אָ֔רֶץ), per terra, al posto del termine prevalente in Daniele ‘ar·‘ā (אַרְעָ֔א).
A Daniele 8: 27 una probabile spiegazione per le visioni di Daniele, in effetti la febbre alta fa vedere tante cose che non ci sono.
Assai interessante a Daniele 9: 3 dove Daniele dice letteralmente di rivolgersi al “signore degli ‘ĕ·lō·hîm”. L’articolo determinativo è regolarmene presene davanti ad ‘ĕ·lō·hîm anche nel testo ebraico. Il traduttore monoteista chiude tutti gli occhi e traduce con l’usuale “Signore Dio” come fa con un discreto numero di altre costruzioni ebraiche.
Deve essere stato particolarmente ostico questo capitolo per il traduttore monoteista. A Daniele 9: 4 troviamo la forma “O signore, l’’êl grande e terribile” - anche qui l’articolo è anche nel testo ebraico. E come traduce il monoteista? Ma naturalmente di nuovo con “Signore Dio”!
A Daniele 9: 19 un brano assolutamente promettente, se naturalmente estratto dal resto del capitolo, per imbastire una preghiera o un canto, naturalmente non per la città e il popolo di Gerusalemme come nel passo in oggetto, ma magari per vincere la lotteria, o guarire da un male.
Piuttosto franco Daniele a Daniele 10: 7 sul fatto che le visioni siano allucinazioni, tanto che le vedesse solo lui; gli altri probabilmente saranno fuggiti vedendolo comportarsi come un matto o più semplicemente ubriaco, tanto da addormentarsi subito dopo.
A Daniele 11: 36-39 un piuttosto impressionante Pantheon di divinità variopinte di cui risulta arduo comprendere l’identità. Nemmeno il traduttore monoteista si spinge troppo a identificare le divinità propri e improprie. Per quanto esageri traducendo con Dio anche ḥem·daṯ (חֶמְדַּ֥ת) che da nessuna parte è inteso come tale quanto piuttosto di valore, oggetto di desiderio ecc.
Probabilmente da questo brano finale del Daniele canonico a Daniele 12: 8-13 la base teologica per la fine del mondo e una qualche rinascita in quel momento. Da notare passando che qui per designare tale momento si usa qêṣ (קֵ֥ץ), piuttosto che il già sospetto ‘a·ḥă·rîṯ (אַחֲרִ֣ית). Come si vede anche nelle note, né l’uno né l’altro termine rappresentano ovviamente un termine finale di tipo metafisico, in quanto ricordiamo che il concetto di metafisica era del tutto essente nella culture ebraica e il massimo a cui possono far riferimento è ad un momento al di là delle proprie previsioni/percezioni.
Come accennato, la versione Cattolica del testo termina con due capitoli accessori non presenti nel testo Ebraico ed Evangelico: uno dedicato alla virtù di Susanna, che piuttosto mette il luce la perversione spregiudicata del popolo ebraico, che sarà spesso messa in luce in letteratura, in cui lo stesso Daniele figura come giudice; e l’altro su una piuttosto assurda disquisizione su quanto siano viventi i rispettivi ’ĕ·lō·hê. In forma piuttosto curiosa si prende per buono il fatto che Yah·weh sia vivente per poi mostrare che tanto Bā·‘al che il tan·nîn non lo sono. Come usuale la traduzione cerca di riprodurre lo stile del testo ebraico originale, se mai esistito, e quindi non è garantito sia più affidabile delle altre rese di testi deutorocanonici.
Interessante a Daniele 13: 57 come sembra Daniele intenda qualificare i Giudei di moralità ed integrità superiore agli Israeliani.
Davvero eccentrico a Daniele 14: 6 come il re, invece di chiedere prova di come Yah·weh mangiasse e bevesse per essere vivo, si mette a sostenere che Bā·‘al mangi e beva, venendo ovviamente deriso, allo stesso modo di quanto sarebbe successo se Daniele avesse dovuto sostenere la stessa cosa a parti invertite. Ma forse il re stesso ci credeva, ingannato dai suoi kō·hă·nîm che volevano mangiare alle sue spalle.
É anche piuttosto eccentrico come a Daniele 14: 18 si mostri che la grandezza di un ‘ĕ·lō·hê la si debba giudicare dal fatto che mangi e beva, anche perché ovviamente nessuno, ovviamente Yah·weh compreso, per quanto non si chieda mai conto di ciò, lo potrà mai fare.