



«D’io.» Il messaggio perduto di Yeshua
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Descrizione dell’editore
Re mancato, rabbino, divinità o “eone”: poco importa. Due millenni fa Yeshua bar Yosef (il Gesù dei Vangeli) lanciò un esplosivo, innovativo messaggio che avrebbe potuto mettere al centro del mondo l’essere umano molto prima dell’Umanesimo e dell’Illuminismo, senza bisogno di dèi e di culti fondati sulla paura. Ma andò in buona parte perduto attraverso il travisamento e la mitizzazione delle sue azioni e parole.
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Qualsiasi cosa si possa dire in merito al Gesù “storico”, il “re mancato” d’Israele, che affascinava le folle attraverso brevi favole morali (le parabole), fu un rivoluzionario sia religioso che politico; fra le due cose nell’antichità non esisteva distinzione e ciò vale ancora oggi in alcune civiltà: quando gli afghani o gli iracheni parlano di «imporre la shari’a» come forma di governo, nessuno si sogna d’interpretarla come un “regno dei cieli” post-mortem.
Con l’avanzare di studi storici sempre più affrancati dalle influenze ecclesiastiche che hanno condizionato e intaccato fino al Novecento la ricerca, la comunità scientifica considera oggi i Vangeli come artefatti storici fallibili, contenenti sia materiale “autentico” che materiale “non autentico”, intendendo con questo aggettivo testi originali (autentici) e possibili eventi e detti storici (autentici) cui nei secoli successivi vennero interpolati altri testi (non autentici) riferiti a eventi e detti mai avvenuti (non autentici). Per esempio, nel detto di Marco (1.14-15)
Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio e dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; ravvedetevi e credete al vangelo».
...l’invito a «credere al vangelo» o il «predicare il vangelo» non possono appartenere all’eventuale Gesù “storico”, poiché il termine greco “vangelo” è invenzione successiva, delle primitive comunità cristiane: nella prima metà del I Sec. non esisteva ancora alcun euagghelion — e peraltro Gesù parlava presumibilmente solo in Aramaico —. A questo riguardo, uno dei primi grandi problemi che si presentano per la ricerca sui testi è proprio quello di identificare gli interessi di queste prime comunità “giudeo-cristiane” e, in base a questi interessi, spesso polemici, focalizzare i detti e i fatti di Gesù che furono creati e inseriti nei Vangeli e nelle Lettere Paoline con funzioni di autoincoraggiamento di queste comunità nel rapportarsi alle altre, detti e fatti che dunque nulla ebbero a che spartire con il Gesù storico.
Nel cercare di risalire agli insegnamenti di quest’uomo dobbiamo spesso accontentarci del contenuto fondamentale e di ricostruzioni ipotetiche della “più antica forma disponibile”, che risalga o no effettivamente a lui. Non possiamo distinguere ciò che proviene da Yeshua da ciò che fu creato dalla tradizione orale della comunità giudaico-paolina delle origini e da ciò che fu prodotto dal lavoro editoriale/redazionale degli Evangelisti. Oltre a ciò, dobbiamo poi considerare tutti gli interventi della più varia natura che nei successivi “centomila giorni” (tre secoli) andarono a confondere la trasmissione della testimonianza, seppellendo fatti e parole sotto una sedimentazione estremamente complessa. Risalire ai termini che Yeshua bar Yosef usò è impossibile e dobbiamo accontentarci di conoscere la “sostanza” di ciò che egli disse.
Anche a fronte di questa roccia imperforabile, però, una volta che rimuoviamo la coltre teologica dalla figura di Yeshua e comprendiamo che la sua ipsissima vox non è quella di una divinità ma di un uomo politico — di uno dei numerosi (come si vede in Giuseppe Flavio, dove ‘in corsa’ c’è perfino un pastore) aspiranti al trono di Israele —, si schiude davanti a noi un orizzonte stimolante. Per capirlo, basta provare a rileggere certe frasi pensando che chi le sta pronunciando non è un dio ma un re mancato (quello certificato dall’acronimo “I.N.R.I”).